Copia Originale: quando l’arte imita il buio della vita
“Se non trovi un lavoro, inventatelo”. Quante volte ci siamo sentiti dire questa frase, magari proprio nel momento in cui eravamo maggiormente a terra, disillusi. Le porte sbattute in faccia, i sogni spezzati, i voli pindarici arrestati a colpi di no e dei soliti “le faremo sapere”. E così l’insicurezza prende il sopravvento; quel briciolo di orgoglio scompare, aspirato dalle parole lanciate come tormenta verso di te. Ti abbatti, ma non cadi del tutto. Ed è proprio in quel momento in cui decidi di ascoltare quel famoso consiglio: “inventati un lavoro”. Così ha fatto Lee Israel, una che di talento e alacrità ne è piena, soprattutto sulle punta delle dita. Lee è infatti una scrittrice e le mani il punto di passaggio, tra la propria fantasia e i tasti della macchina da scrivere. Il caso vuole che, al verde e senza lavoro, con un affitto da pagare e una gatta da curare, la protagonista di Copia originale usi il proprio talento per scrivere lettere attribuite ai grandi del cinema, teatro, letteratura. Per mezzo di un foglio Lee trasforma i suoi pensieri, le sue battute, in attività criminale.
Se Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri, Lee vende il falso per dare a se stessa e al suo unico amico Jack. Un’attività avviata, che frutta e che permette alla donna di illudersi di aver trovato un po’ di stabilità. Ma così, ovviamente, non sarà.
L’attenzione con cui Melissa McCarthy dà vita al proprio personaggio è paragonabile a quella della stessa Lee, che compie il proprio lavoro con fare certosino. Essere comici non deve essere facile; far ridere è una delle cose più difficili al mondo, ma riuscire a imporsi come attrice seria dopo una sfilza di dumb movies di dubbia qualità (Pupazzi senza gloria, giusto per citarne uno) è missione quasi impossibile. La McCarthy ce l’ha fatta portando sullo schermo una performance impeccabile e giocata tutta in sottrazione. La mimica facciale si limita a una maschera inespressiva, fredda, glaciale, così da non lasciare trasparire alcun segno di ansia o di preoccupazione, soprattutto quando collezionisti e librai esaminiano la sua opera.
A sottolineare la tormenta emotiva che scuote dall’interno la protagonista ci pensa la regia di Marielle Heller. Ogni inquadratura ha un significato simbolico con cui esprimere sentimenti e paure non sempre esplicitati sullo schermo. Dal momento della truffa le riprese si fanno più angolate. Ecco dunque che il personaggio della McCarthy (soprattutto nei momenti in cui aiuta quello di Richard E. Grant) viene colto dal basso, esasperando la sua figura, per poi essere ritratta da una prospettiva più rialzata, che la schiaccia verso il basso, soprattutto quando le insicurezze prendono possesso di lei (si pensi al dialogo fuori dal ristorante con la libraia).
Vi è come un’ombra incombente a dominare lo schermo. Nessuna luce accecante, nessuna tonalità sgargiante o colori brillanti a rinvigorire lo scenario attraversato. Le riprese, anche quelle esterne, sono rivestite da una fotografia cupa, terrosa, cinerea. Il fumo della città avvolge l’atmosfera che attraversano i personaggi alludendo a quella polvere e a quello sporco che non solo domina l’appartamento di Lee, ma anche le sue vendite truffaldine.
Copia originale è una discesa nell’inferno personale dopo un assaggio di paradiso. La lotta di Lee per risalire al purgatorio è una catarsi colma di emozioni senza cadere nel patetismo. Un film da guardare e riguardare per assaporarne ogni singolo fotogramma. Poco importa che anch’esso non sia una replicazione perfetta della vita della vera Lee; come dimostrato dagli eventi stessi, a volte anche una parola copiata può colpire al cuore molto più di una autentica.