La belle époque: la recensione del film di Nicolas Bedos
Presentato in anteprima mondiale allo scorso Festival di Cannes, e approdato a RomaFF14, La belle époque si annovera tra i film sopresa di quest’anno. Malinconico e divertente, il film di Nicolas Bedos è un puzzle di frammenti del passato con cui costruire il proprio presente.
Viviamo in un’epoca in cui lo sguardo si rivolge sempre più alle nostre spalle, mentre fissi, gli occhi puntano verso ciò che è stato, insofferenti per ciò che è e che forse sarà. Ci sembra di avere tutto, eppure un’aura di insoddisfazione ci avvolge, accompagnandoci nei nostri giorni. Sopraffatti da un senso di malinconia, sogniamo di vivere epoche mai vissute, o riassaporare la bellezza e la spensieratezza di eventi o incontri che ci hanno completamente rivoluzionato la vita.
Ed è sfruttando questo desiderio inconscio di cavalcare a ritroso l’onda del tempo che il personaggio di Antoine (Guillaume Canet) nel nuovo film di Nicolas Bedos La belle époque deve il suo successo. Con la sua azienda, la Time Traveller, offre ai propri clienti di rivivere il passato attraverso delle perfette mise-en-scène. Nessun Tardis alla Doctor Who, ad Antoine e al suo staff basta un set, degli attori e delle accurate ricerche online per creare una perfetta macchina del tempo, strumento di soddisfacimento malinconico per chi, come Victor (uno straordinario Daniel Auteuil) si ostina a vivere confinato tra i ricordi del passato. Un ancoraggio ostinato all’uomo che fu, del tutto opposto a quello della moglie Marianne (Fanny Ardant), donna forte e volitiva orientata al futuro, come dimostrano i dispositivi tecnologici di cui ama circondarsi (visore per la realtà virtuale, smartphone di ultima generazione ecc.). Un cortocircuito domestico, il loro, che porterà all’inevitabile separazione. Una rottura dei legami a cui Daniel si opporrà rifugiandosi nel sogno a occhi aperti offerto da Antoine, rivivendo tra storyboard, attori e scenografie il primo incontro con Marianne (interpretata nella versione reinventata da Margot).
Ne La belle époque la nostalgia diventa business, e il tempo elemento arbitrario, manipolatorio e manipolativo. È tra gli interstizi di questo gioco di creatività e ritorno al passato che si ritrova un elemento meta-filmico in cui l’attività di Antoine non è altro che il riflesso metaforico del cinema al lavoro. Universo illusorio e di appannaggio realistico, dove tutto risulta reale solo perché visibile agli occhi, il cinema è proprio come il set costruito con attenzione quasi ossessiva dal protagonista del film di Bedos. Signori del tempo i registi accolgono tra le proprie mani l’elemento cronologico e lo manovrano a proprio piacimento. Possono ricrearlo, riportando lo spettatore in epoche passate, oppure – con la complicità dei montatori – ribaltarlo, rivoltarlo, destrutturarlo con flashback, ripetizione di un medesimo fotogramma, o split-screen.
Dopo Un amore sopra le righe, Bedos torna a trattare le tematiche che predilige di più come l’usura del tempo, e la recriminazione autoinflitta per occasioni perdute, o sentimenti custoditi troppo superficialmente. A supportare le sue fondamenta creative, come colonne portanti di un tempio in cui rimpianti e amori tornano ad abbagliare la vista come fanali nella notte, sono soprattutto i suoi interpreti. La coppia Daniel Auteuil – Fanny Ardant è brillante. Nelle loro faide domestiche si riassapora quel gusto da vecchia screwball comedy americana che fa ridere ed emozionare. Non sono da meno Guillame Canet e Dora Tillier, irresistibili nei loro abbracci seguiti da schiaffi e altrettanti baci appassionati.
Se la forza de La belle époque risiede dunque nell’eccellenza dei suoi interpreti, a giocare un ruolo essenziale nella sua perfetta messinscena è soprattutto una sceneggiatura redatta con una precisione ineccepibile, capace di destrarsi tra cliché del genere e superarli, commovendo ed emozionando tra sospiri e risate.
Il risultato finale è una macchinazione ben oliata, un divertissement tra spazio e tempo capace di far sognare e riflettere su quanto effimera sia la vita, senza dimenticarci che forse un’epoca è bella solo se siamo noi a renderla tale.
Elisa Torsiello