(Ri)Scoprendo Edgar Wright: Baby Driver

(Ri)Scoprendo Edgar Wright: Baby Driver

Sin dai suoi albori il cinema ha amato giocare con il concetto di adrenalina e pericolo nutrendosi del gas di macchine sfreccianti sullo sfondo di rapine, o altre attività criminali. Da L’urlo della folla a Fast & Furious, passando per The Italian Job, fino a Fuori in 60 secondi, la parabola crescente d’interesse spettatoriale verso questo microcosmo adrenalinico non sembra ancora intenzionata a fermarsi. È altresì vero che viviamo oggi in un periodo come quello post-contemporaneo, dove al cinema tutto è stato detto, o fatto. Il pericolo di saturazione attrattiva verso un dato genere è, pertanto, perpetuamente in agguato. Affinché ciò non accada non serve l’intervento di maghi o grandi strateghi, ma semplicemente di registi capaci di prendere un topos narrativo, stringerlo tra le mani e investirlo di un’aura di innovazione quando di nuovo non c’è più nulla. Vi è insomma bisogno di un regista come Edgar Wright. Forte di una cinefilia bulimica che nulla ha da invidiare a quella di Quentin Tarantino, il regista inglese classe 1974 ha imparato a prendere un genere e farlo suo, ad assoggettarlo alla propria visione estetica e, come creta, modellarlo secondo uno stile riconoscibile e sempre infarcito di citazioni. A fungere da modello per la sua ultima opera – Baby Driver – è stato Driver – L’imprendibile, film del 1978 di Walter Hill a cui già Nicolas Winding Refn si era ispirato per Drive. A questo schema iniziale Wright aggiunge una sequela di omaggi più o meno celati a quel tipo di cinema che lo ha accompagnato nel suo percorso di vita, uno su tutti Gangster Story (il personaggio di Baby che corre con una lente degli occhiali da sole rotta è un chiaro riferimento al personaggio di Walter Beatty nel film del 1967).

Dagli zombie de L’alba dei morti dementi, fino al sovvertimento del genere catastrofico in La fine del mondo prima, e la rivisitazione in chiave assurdo-comica dei cinecomic in Scott Pilgrim poi, quella di Wright è una produzione che gioca sulla parodia nella sua accezione più intellettuale. Parodiare significa innanzitutto conoscere in profondità un determinato contenitore filmico, sapere su quali elementi giocare e da essi opporsi, contraddicendoli. Eppure dietro a Baby Driver si nasconde molto più che il semplice “sesto film nella carriera del regista inglese”. Baby Driver è il compendio perfetto dell’intera carriera di Wright; il summa di un modus operandi generato da una passione sviscerale per il cinema che non ha paura di rivelarsi. Ma allora perché iniziare un eventuale excursus nella carriera di Edgar Wright proprio dal suo ultimo film? Semplice, perché in realtà Baby Driver è il primo film di Edgar Wright, o almeno il primo a essere stato concepito. L’idea di un ragazzo che sfreccia con la propria macchina in soccorso di una banda di criminali ha iniziato a stuzzicare l’immaginazione di questo regista verso la fine degli anni Novanta. Ma Edgar era giovane al tempo; troppo giovane. Un primo tentativo di tradurre questa idea in opera creativa si trova nel video musicale del 2003 “Blue Song” dei Mint Royale con protagonista Noel Fielding. Tre minuti e mezzo di canzone erano troppo pochi per sviluppare in toto la propria idea, ma abbastanza per seminarla, nutrirla, cullarla, nell’attesa che crescesse sana e più che forte che mai.  Grazie a due decenni di gestazione e la maturità che solo un uomo di 43 anni con cinque film alle spalle (più una serie TV, Spaced) può vantare, il film si è potuto trasformare da sogno adolescenziale e profetico di uno stile pronto a manifestarsi, in summa visivo di un’autorialità in bilico tra citazionismo e fedeltà al proprio estro.

La particolarità messa a punto in Baby Driver da Edgar Wright (e non così dissimile da quella caratterizzante lo stile registico di un suo quasi omonimo, Joe Wright) è infatti quella di far danzare ogni singolo elemento profilmico, dalla macchina da presa, ai suoi protagonisti. Quelle guidate dal protagonista in Baby Driver (un Ansel Elgort perfettamente calato nella parte) non sono solo auto che corrono veloci verso un bottino facile e lontane chilometri dalle forze dell’ordine. Sono Subaru, BMW, o Chevrolet che danzano come étoile professioniste e sinuose sul teatro della strada. Perfino i sottotitoli che suppliscono alla mancanza di parola dell’anziano accudito da Baby (doppio diegetico del protagonista per quel suo deficit uditivo e la difficoltà di proferire parola) compaiono sullo schermo a tempo di musica. Arrivando all’autocitazione (ma evitando lo scoglio dell’autoreferenzialità) Edgar segue Baby come seguiva Shaun ne L’alba dei morti dementi, ossia per mezzo di un piano sequenza dinamico e integrato da una componente musicale che non solo dà il là agli eventi, ma anche e soprattutto agli stessi movimenti del protagonista. Se la musica è sempre stata una componente essenziale nella produzione filmica di Wright (la cui carriera iniziò proprio nel campo dei videoclip) in Baby Driver, a causa dell’acufene di Baby, essa si fa ancor più imprescindibile, tanto da tradursi in ossessione.

Se dal punto di vista strettamente visivo Baby Driver è, dunque, un’esecuzione sinfonica ineccepibile e perfettamente coerente con il mondo veloce, dinamico e ritmato del suo protagonista, dove il film rivela la propria debolezza è nella sceneggiatura. Non più coadiuvato da Simon Pegg, o Michael Bacall, Edgar Wright si ritrova da solo a firmare l’intreccio della propria opera; ne deriva una sceneggiatura interessante ma del tutto incapace di stare al passo con la componente visiva, tanto da risultare spesso fiacca e prevedibile. Privata dello humor stralunato de La trilogia del cornetto, o di Scott Pilgrim (senza parlare di Spaced), le battute aleggiano nel vuoto, passando in secondo piano, sovrastate dallo stridere dei freni, o dalla voci di Freddie Mercury e Beck.

Che sia l’apripista di una nuova trilogia, o un caso isolato, tra action e fiaba, sogno e realtà criminale, Baby Driver colpisce lo spettatore e lo attira nella sua tela. Eppure si sente che manca qualcosa, un po’ come a Baby manca spesso la parola. Suonala ancora dunque Edgar. Suonala meglio. Noi ti aspettiamo.

Elisa Torsiello

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